venerdì 7 dicembre 2007

SOTTO UNA LUCE AL NEON

Gli anni 80 erano anni quadrati…tutto era quadrato: il cubo di rubrick era quadrato, tetris era di quadrati…Michael Jackson era un cantante ben quadrato nel sistema mentre oggi è un pedofilo a tutto tondo con Neverlend che gli fa da sfondo.
La gente era quadrata nei suoi pensieri…le famiglie cercavano di fare quadrare i conti e le gallerie d’arte erano pieni di quadri ma che servivano solo per un quadro economico più vasto. Io ero nel mio box e già boxavo con la vita.
C’era la Milano da bere, ma che dietro coppe di champagne nascondeva fiumi di gassose sgassate di quelle che un tempo avevano la pallina.
Era il trionfo della plastica facciale che prendeva il posto al plastico delle brigate rosse.
Alla fine io muovevo i primi passi e passavo da un passato. Già dall’ora senza bere un chinotto ero fuori dal coro.
In un mondo quadrato ero tondo. Morbido per le amate quando c’erano. Obeso per i medici quando li vedevo. Grasso per i nemici e quelli c’erano. Robusto per gli amici mai veramente sinceri e normale per le nonne.
Di quegli anni 80 ricordo il nulla del tutto. E volevo tutto e nulla. Ma non davo nulla per nulla.
Anche perché non avevo nulla da dare. E se anche avessi voluto dare nessuno avrebbe preso.
Ero solo? No! La solitudine mi avrebbe nobilitato. Ma io avevo un amico.
Se tutti avevano almeno un amico che a sentire le loro frasi era fatto. Io avevo un amico solo fatto di frasi fatte.
Quell’amico era Andrea Alberto Anselmi e questa è la sua storia…perché Alberto una storia da raccontare ce l’ha mentre io da raccontare ho solo la sua…ma la racconto meglio.
Alberto non era non c’era per il mondo. Non era uno che stava bene o male con gli altri era uno che con gli altri non ci stava. Stava spesso da me…da me era la salagiochi, io giocavo ma Alberto non giocava guardava. Io giocavo e lui guardava e guardava. Poi io finivo e lui diceva “oggi è andata bene” abbiamo vinto. Ma io non capivo mai. Alberto stava bene lì e allora si andava.
Si andava se andava a tutti e due, e a tutti e due andava sempre di andare alla sala giochi. Si era felici. Ma Felice non era d’accordo. Felice era di fuori era fuori e fuori dalla sala giochi aveva parcheggiato una fuoriserie. Felice era felice perché era ricco. E i cabinati della salagiochi li aveva a casa ed era forte…troppo forte.
Felice era famoso e veniva da Roma lì i cabinati avevano la sua firma Dux si chiamava e la gente della sala giochi lo temeva.
Si mise a giocare Dux a cosa non sò ma ad uno ad uno tutti i campioni delle sala sfidava e tutti li batteva. Non c’era giocatore che resisteva. C’era Paolo il geometrico che perse a Tetris. E Mario il ct battuto a kick off. Uno ad uno le colonne si piegavano alla meglio e si spezzavano alla peggio..
Anch’io provai con il risultato di perdere almeno due monetine.
Poi quando tutti la propria sfida l’avevano persa una voce che nessuno conosceva si udì
“te la fai una a Space Invader”
Per molti quella fu la sola frase di Alberto. Per me fu la sola pronunciata in quel modo.
Dux accettò e la sfida cominciò. Felice si era allenato ma Alberto aveva studiato. Vedemmo per la prima volta Felice sudare e Alberto con serenità fischiettare. E alla fine a Dux non rimase che dire “ e cazzo!” subito dopo che la scritta game over comparve sul cabinato. Tutti si volevano complimentare ma Alberto non li stava a sentire lui voleva solo giocare. E pian piano quando ormai la serata era finita e soli si era rimasti in sala lo vidi finire la sua partite e poi solo sotto una luce al neon vidi Alberto Andrea Anselmo per la prima volta digitare AAA.
E da lì Alberto cominciò a giocare e a vincere ma la sua storia ha smesso di girare. Perché nessuno sta lì a credere che esiste uno che batte tutti i record. Ma ogni volta che vedo AAA sulla classifica io ricordo di quando solo, sotto una luce al neon Alberto Andrea Anselmo digitò per la prima volta AAA.

Io Doroty e la Salamandra

Avevo 10 anni quando i miei genitori, costretti da un impegno (credo fosse una cena di gala), mi lasciarono solo in casa. A dire il vero non ero proprio solo; con me c’era Doroty la barboncina di mamma. Non che mi fosse di grande compagnia. Era un cane da concorso. Uno di quelli con il pedigree… in parole povere mi era vietato giocarci.
Non ero proprio un bambino coraggioso, anzi a dirla tutta ero un fifone da primato. Quella sera però avrei dovuto farmela passare tutta, perché quella sera avrei scoperto che insieme a me e Doroty in quella casa c’era un mostro. Venni a conoscenza della sua presenza subito, ancora prima che i miei genitori uscissero di casa. Lo vidi lì, attaccato alla parete della mia stanza. Subito corsi da mia madre che stava uscendo. Mi abbracciai alle sue caviglie e gli raccontai quello che avevo visto: nella mia stanza c’era una lucertola, ed era enorme.
Mia madre mi prese in giro, ma come: alla mia età ancora avevo paura delle lucertole. Io cercai di spiegargli che era veramente enorme…lei non volle sentire. Era in ritardo. La sola cosa che riuscì a ottenere fu la promessa che lei e papà una volta tornati mi avrebbero aiutato a cacciarla. Io provai a fargli capire che quella cosa poteva mangiarmi prima che loro tornassero. Mamma fu categorica: come poteva, una cosa più piccola di me, mangiarmi e poi stavano via non più di due ore. Detto questo chiuse la porta a chiave e se n’andò. Senti la macchina partire ed allontanarsi. Ripensai alle sue ultime parole…come può, una cosa più piccola di me, mangiarmi. Il problema stava li…lei non era affatto più piccola di me.
Allora pensavo fosse una lucertola, oggi so che quella bestia era una “ Salamandra Reale gigante del Giappone” un rettile in grado di raggiungere il metro e sessanta di lunghezza e i 120 chili di peso.
Avrei benissimo potuto lasciare la lucertola nella mia stanza, chiuderla a chiave e aspettare che i miei genitori tornassero. C’era un problema però: quella era la mia stanza, lì c’erano i miei giocattoli, i miei giornaletti…lì dentro c’era la mia identità di bambino e non avrei mai lasciato che nessun mostro dalla pelle squamata e dalla lunga lingua me la portasse via.
Svegliai Doroty che, per quanto la sua specialità era sculettare su un tappetino, è pur sempre un cane e sa difendersi. Anche se io non ero la sua padrona, mi avrebbe difeso. Su entrambe le cose mi sbagliavo.
Aprì l’armadietto di mio padre e presi la sua sacca da golf, cercai quella che mi sembrava la più pesante, scelsi il ferro tre (non che fosse il ferro tre), ma quello conoscevo e quello doveva essere.
Con me avevo una mazza da golf, ferro numero tre. Una barboncina con un ottimo pedigree e uno scola pasta in testa a mo d’elmetto militare, tenuto stretto da un laccio di scarpa legato sotto il mio mento.
Per mia fortuna avevo lasciato la luce della mia cameretta accesa. Almeno non avrei dovuto affrontare il mostro nell’oscurità.
Entrai nella mia cameretta. Lei non c’era. Non era a terra, non era sulle pareti, non era…era sul soffitto. Appena mi vide cominciò velocemente a scendere dalla parete opposta alla mia, per poi lanciarsi sul pavimento con tutta la sua mole creando un forte tonfo. Alla vista della salamandra Doroty svenne. Non credevo che i cani fossero in grado di farlo, ma lei lo fece. La salamandra alla vista del corpo inerme si lanciò a bocca spalancata nella sua direzione. Afferrandolo al collare, riuscì a togliere il cane dalle fauci del rettile, e lo lancia fuori della cameretta. Subito la salamandra puntò su una mia gamba e, solo un colpo della mazza da golf su la sua testa, impedì che me l’addentasse. Provai a colpirla una seconda volta, ma lei con la sua lingua e con le sue fauci mi disarmò; persi, pertanto, l’equilibrio e caddi a terra. Lei era pronta ad attaccarmi. Si avventò su la mia faccia io piegai il capo. Lo scolapasta che portavo come elmo s’incastrò nella sua larga bocca. Prontamente lo slacciai ed uscì dalla cameretta, serrando la porta dietro di me. Non feci in tempo a chiuderla a chiave che la salamandra con una zampata l’aprì. Recuperai Doroty che si era risvegliata ma non si era ripresa del tutto, e corsi verso la cucina. La salamandra sputò lo scolapasta e questi colpì il piedistallo di un vaso a cui mia madre teneva molto. L’oggetto si ruppe e il piedistallo cadendo creò un effetto a pallottola spuntata o se si preferisce domino. A questo punto, la salamandra entrò in cucina. Avevo tenuto in conto l’eventualità che la mazza da golf non sarebbe bastata e in vista di ciò avevo organizzato un piano d’emergenza. Sopra una tovaglia ero riuscito a mettere tutte le pentole che avevo trovato e accatastato sul lavello, all’entrata della cucina. Un lembo del panno attraversava completamente il tavolino. Io ero sopra quel tavolino. Appena la Salamandra fu in posizione presi la tovaglia e mi gettai giù dalla tavola. Il mio peso fece cadere tutti i tegami addosso alla salamandra…forse, l’avevo uccisa.
Andai in bagno tronfio della mia vittoria. Doroty mi seguii. L’acqua del rubinetto non mi fece udire il rumore di pentole che si spostavano. Fu solo quando finì di asciugarmi la faccia che mi accorsi di lei. Era ancora viva, un po’ ammaccata, ma viva e soprattutto incazzata. Lanciò un grido sibilante. Doroty terrorizzata si gettò verso la finestra del bagno, che era chiusa, ma che soprattutto era al sesto piano. La salamandra mi diede una forte codata gettandomi a terra. Mi salì addosso e provò a mordermi. Da terra recuperai lo spazzolino del Water che conficcai trasversalmente nella bocca della lucertola. Lei si dimenava per toglierselo. Io non riuscivo a levarmela di dosso, il suo peso mi stava schiacciando. Dovevo ucciderla prima che liberasse la bocca. Mi serviva qualcosa d’ affilato. Lo trovai. Presi uno dei vetri della finestra, la finestra che Doroty aveva rotto precedentemente. Penetrai il vetro nella testa della salamandra, proprio in mezzo agl’occhi. Il rettile rantolò un po’, poi esalò l’ultimo respiro.
Quando i miei tornarono, per loro lo spettacolo non fu dei migliori. La casa era devastata. Il loro figlio dormiva sotto una gigante salamandra priva di vita… in più per mia madre c’era lo shock di Doroty morta.
D’allora i miei genitori non mi lasciarono più solo in casa, anche se ormai non avevo più bisogno di loro perché da quella notte avevo smesso d’avere paura; ma, avevo anche elaborato una strana forma di diffidenza verso i cani, in particolare verso i barboncini.

UN ROMANTICO PRANZETTO

Il pranzo era stato quasi perfetto, se si esclude ovviamente l’imprevisto dell’acqua versata, ma si sa un pranzo non può mai essere perfetto.
Lei aveva previsto tutto nel minimo dettaglio, i due avrebbero pranzato insieme a casa di lei, dopo di che lei avrebbe copulato con lui e dopo aver ottenuto quello che realmente desiderava lo avrebbe ucciso, perché nessuno si potesse vantare di essere stato a letto con lei.
La prima parte del suo piano era riuscita, il pranzo era stato perfetto, se si esclude l’incidente dell’acqua, ora non restava che copulare con il maschio e poi lo avrebbe ucciso, ma accadde ciò che non era prevedibile, lui sembrava resistere ad ogni tentativo di seduzione che lei gli proponeva, non c’era mossa, profumo o richiamo che destasse il suo interesse.
Lei era avvilita non le era mai successo una cosa del genere nessun maschio le aveva mai resistito, spesso non era ancora finito il pranzo che già le erano addosso, ma lui no, era diverso, non faceva altro che parlare e parlare, in lei cominciò a balenare un dubbio, che lui fosse uno di quelli, poteva essere, penso, n’aveva tanto sentito parlare ma non credeva di poterne incontrare uno.
Non si perse in inutili preamboli, voleva subito chiarire la situazione che si era andata creando, e gli fece una domanda diretta e precisa in modo da avere una risposta altrettanto precisa “ sei omosessuale ?”, lui fece cenno con la testa di si.
Lei non ci vide più, quello stupido le aveva fatto perdere solo tempo, con un movimento improvviso delle proprie falci gli staccò la testa di netto, guardò per un attimo la testa di quello che doveva essere un maschio. La piccola mantide decise allora di ripartire per il suo viaggio, nella speranza di trovare in quel prato un maschio di mantide religiosa con cui accoppiarsi, ma ancora non riusciva a credere di aver incontrato uno di quei rarissimi esemplari di mantide religiosa omosessuale.